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Claudio Costantini, Un contabile alla guerra
Claudio Costantini
Un contabile alla guerra
1. Ottone Costantini – mio padre – era nato il 18 febbraio del 1889 a Osimo, in un’agiata famiglia della borghesia cittadina. Mio nonno, famoso per le sue spiritose stravaganze, non era quel che si dice un amministratore oculato e all’aprirsi del nuovo secolo finì col perdere l’azienda, la casa e pressoché ogni altra sostanza. Il rovescio costrinse la famiglia a lasciare Osimo e a peregrinare per l’Italia in cerca di miglior fortuna.
Interrotto il ginnasio, che aveva appena iniziato, non mi risulta che Ottone abbia più avuto l’opportunità di riprendere un corso regolare di studi. A Genova, dove era arrivato nel 1906 e dove aveva trovato impiego come giovane di scagno presso un importatore di carbone, seguì i corsi gratuiti di disegno e pittura che si tenevano all’Accademia. Nelle liste di leva del comune compare con la qualifica di “commesso”;[1] il foglio matricolare lo dice “contabile”.
Sotto le armi Ottone finì col rimanere, con due soli intervalli, il primo dei quali brevissimo, per quasi un decennio. Chiamato nel novembre del 1909 nella Brigata d’Artiglieria da Costa della Sardegna (poi 3° Reggimento d’Artiglieria da Costa e Fortezza), terminò il servizio di leva nel settembre del 1911. Richiamato dopo appena due mesi, fu congedato di nuovo nell’agosto del 1912. Richiamato ancora nell’agosto del 1914, ma dispensato perché un altro suo fratello era già sotto le armi, poté godere ancora di nove mesi di libertà. Il 23 maggio 1915 si presentava al suo reparto – sempre il 3° Reggimento Artiglieria da Fortezza – e due mesi più tardi raggiungeva la zona di guerra, sul fronte dell’alto Isonzo. Avrebbe smesso la divisa solo il 12 luglio 1919.[2]
I quasi tre anni trascorsi tra il secondo congedo e la partenza per il fronte costituiscono forse il periodo più bello della giovinezza di Ottone. Viveva a Roma, dove era impiegato assieme al fratello Ivo (o Ivan) presso l’ufficio della AEG Thomson Houston di Via delle Carrozze e frequentava l’ambiente, allora socialmente contiguo a quello impiegatizio, degli artisti - pittori e scultori - che si ritrovavano nel magico triangolo tra Corso Umberto, Via del Babuino e Via Condotti. Uno di questi, uno scultore, gli fu compagno, nei primi mesi di guerra, nella zona Mrzli-Tolmino, servendo come telefonista nella sua stessa batteria.
Alla AEG Thomson Houston Ottone conobbe Sandra (Sandrina la chiamavamo in famiglia) e cioè mia madre, allora diciottenne, bellissima, anch’essa contabile. Ancora inesperta nei lavori d’ufficio Sandrina trovò nei fratelli Costantini due volonterosi maestri. Pare, ad esempio – e lei stessa lo ricorda più di una volta – che la sua grafia, in particolare il suo corsivo inglese, lasciasse parecchio a desiderare (almeno rispetto agli standard allora richiesti) tanto da indurre Ottone a prendersene personalmente cura.
Ottone e Sandra si innamorarono. Ma la timidezza di lui (o piuttosto lo “scontroso pudore” di cui avrebbe parlato in vecchiaia, quasi a scusarsene, in una poesia dedicata, appunto, alla moglie) e la riservatezza di lei (d’obbligo all’epoca) fecero mancare quel tempestivo chiarimento dei reciproci rapporti che sarebbe stato opportuno; e l’Italia entrò in guerra senza che i due si fossero dichiarati. Una volta partito per la guerra, poi, “il timore di legare alla [sua] incerta esistenza un’esistenza preziosa” (come ebbe più tardi a scrivere a Sandra a giustificazione delle sue esitazioni) [3] convinse Ottone a rinviare a tempi meno travagliati ogni nuova iniziativa. Il che ebbe conseguenze negative non solo, come è ovvio, sulla vita dei due, ma anche, come dirò, sull’integrità del materiale documentario che viene qui presentato.
Anziché fidanzata, dunque, Sandra si ritrovò, allo scoppio del conflitto, “mammina”, ossia madrina di guerra di Ottone. Il ruolo poteva soddisfarla e magari divertirla per qualche tempo, ma non di più. Quando, sul finire di novembre del 1915, Ottone tornò a Roma, per concorrere con altri graduati e sottufficiali della sua batteria alla formazione di nuove unità, ad attenderlo alla stazione Sandrina c’era, ma lui non la vide e lei non osò farsi vedere. (“Rivedo anch’io nel ricordo – avrebbe scritto più tardi Ottone – quella fredda sera di Novembre; rammento pure che avrei tanto desiderato di rivederti: e ti avevo così vicina! Perché non ti ravvisai?”[4]). Che cosa sia poi accaduto non so. Certo, entrambi dovevano essere ben decisi a tenere per sé il ricordo di quei mesi e della infelice sequela di equivoci e di silenzi che li aveva segnati se, quando misero al mondo dei figli, risolsero di distruggere la parte del loro epistolario che andava dal ritorno a Roma di Ottone alla “rottura” ufficiale nel giugno del 1916: e questa è oggi la lacuna più grossa in un carteggio che per il resto, almeno per quanto riguarda le lettere di Ottone, si è conservato per intero.
La “rottura” tra i due fu poco più di una finta, per quanto lunga e dolorosa per entrambi, che naturalmente non sapevano come sarebbe andata a finire e si arrovellavano nell’incertezza. Il caso volle che proprio nei giorni in cui maturava la crisi Ivo fosse richiamato alle armi e che, essendo anche lui d’artiglieria, riuscisse a farsi assegnare alla stessa batteria del fratello. Venne perciò naturale a Sandra spostare su Ivo, suo collega anziano, le attenzioni che, in qualità di madrina di guerra, aveva fino a quel momento riservato – con ben altro animo – ad Ottone, mentre Ottone veniva, per così dire, “preso in carico” da Egle, una sorella di Sandra. In questo modo Ottone e Sandra, sia pure per interposta persona (e, per noi, oggi, a costo di una sensibile rarefazione del materiale), continuarono a ricevere notizie l’uno dell’altra, a lanciarsi reciprocamente incerti messaggi e insomma ad essere in relazione. Finalmente, nell’aprile del 1917, l’imbroglio si sciolse nel senso da tutti desiderato: Sandra e Ottone tornarono a scriversi e si fidanzarono.
Quelle che i miei genitori si sono scambiate sono dunque, dalla prima all’ultima, lettere d’amore. Come tali non appartengono che a loro. Quel che ne ho ricavato per la pubblicazione è solo una testimonianza sulla Grande Guerra. Una testimonianza fra infinite altre, ma che mi sembra non inutile mettere in circolazione sia per certi suoi caratteri non comuni, di cui parla Cataluccio, sia perché dei modi in cui quella prima guerra è stata vissuta - voluta, subita o rifiutata - da chi era chiamato a farla non se ne saprà mai abbastanza, se è vero, come penso, che una delle chiavi per capire questo nostro secolo che va morendo – e che forse è già morto – è ancora e sempre lì.
Ma nell’epistolario dei miei genitori – è uno dei suoi pregi e insieme un elemento da non dimenticare per valutare nei suoi giusti limiti la drastica selezione che ho dovuto operare – la guerra non è la cosa principale. La guerra, qui, è solo lo scenario eccezionale di una normale storia d’amore. Uno scenario, anzi, che va sbiadendo man mano che per Ottone, pur tra improvvisi ritorni di entusiasmo e ricorrenti angosce, l’esperienza della guerra scivolava nella routine [5] e che l’amore, all’inverso, s’imponeva, dapprima come vicenda a mala pena sperata e sorprendentemente riuscita e poi come unico elemento certo in un progetto di vita che proprio la guerra, con la sua esasperante ripetitività, costringeva a rinviare sine die.
C’è un modo un po’ grossolano, ma efficace per misurare quale peso avesse la guerra nella corrispondenza dei miei genitori e come esso andasse decrescendo col tempo: le lettere o le cartoline di Ottone da cui ho tratto i brani per questa raccolta sono appena 225 sulle 346 che costituiscono l’epistolario superstite fra la sua partenza per il fronte, il 20 luglio 1915, e la sua prima licenza di pace, nel novembre 1918; e se per i primi quattro mesi ho potuto riportare (per lo più integralmente) tutte quelle scritte da Ottone, per gli ultimi venti (dal fidanzamento alla fine della guerra) non ne ho trovate che 155 su 300 che presentassero spunti riferibili direttamente o indirettamente alla guerra.
D’altra parte l’epistolario non finisce con la fine del conflitto. Tornata la pace, ma di nuovo divisi da traversie familiari, Ottone e Sandra continuarono a scriversi quasi ogni giorno sino al matrimonio, che riuscirono a celebrare soltanto nel settembre 1921. Da questa seconda parte del loro carteggio si potrebbe trarre un’altra ricca testimonianza sulle ordinarie sventure del dopoguerra: lo spaesamento del reduce, la disoccupazione, il carovita, le quotidiane zuffe con pensionanti e affittacamere, l’affannosa ricerca di un’abitazione (niente più di una camera ammobiliata con contrastato o clandestino uso di cucina) tra mortificanti trattative private e inutili pratiche presso il commissariato alloggi... (“Oggi – scriveva Ottone a Sandra nel novembre del 1919 – la guerra è un po’ diversa, ma, ahimé! quanto è aspra!”). A coronare il tutto un’immagine del viaggio di nozze, che nell’epistolario non c’è, ma che si evocava in casa: il treno invaso, a non so quale fermata, da schiamazzanti torme di squadristi.
2. Le testimonianze sulla guerra che ho selezionato sono soprattutto quelle di Ottone; ne ho inserite però anche di Ivo e, in nota e a corredo delle prime, ho utilizzato qua e là quelle di Emma, sua sorella, di Antonia, sua madre e, naturalmente, di Sandra. Di Sandra non ho riportato che pochi frammenti delle settantotto lettere rimaste. Nella corrispondenza di Sandra non mancano gustosi scorci del piccolo mondo borghese e impiegatizio a cui apparteneva e che era allora, proprio in relazione alla guerra, in piena crescita e c’è tutto un repertorio tra il lagrimevole e il buffo (ma Sandrina aveva più voglia di ridere che di piangere) di episodi di patriottismo – come dire? – “alla romana”, ossia di vera o presunta partecipazione popolare alla guerra.
Sabato, al solito, – scriveva ad esempio l’8 settembre 1915 – abbiamo pranzato in ufficio, nella stanza ove i fattorini fanno la posta... Mentre tranquillamente e con grande appetito... una fame anzi!... gustavamo il nostro pranzetto, nella loggetta vicinissima alla nostra finestra - ricorda? - è apparsa una giovane e bionda signora... La birbante di Cina e la birichina di Olga hanno ricordato... ed in un baleno dato l’allarme: - È una tedesca, quella famiglia è una nemica!- Ad un tempo e tutte con voce bene intonata abbiamo incominciato con -Va fuori d’Italia, Va fuori o stranier!-. Questa colleghina, che è tanto restia alla pubblicità, non ha potuto fare a meno di unirsi alle altre... ed ha cantato a sgolarsi tutta l’edizione delle nostre belle canzoni patriottiche... Intanto sulla loggetta, scomparsa subitanea della bionda figlia dell’aquila nera... e le cameriere, la governante, tutte italiane, con il pretesto, l’una di spazzare in terra, le altre di spolverare o stendere dei panni, uscivano fuori ad una ad una, guardavano sorridenti e gaie, entusiaste della nostra uscita... o birichinata... Come la vogliamo chiamare?[6]
Ma della guerra propriamente detta, di cui pure insisteva a parlare, pensando, a torto, di far piacere a Ottone (“di guerra – ebbe a dirle una volta – non ne parlare mai, ne vedo abbastanza ed ò da te e dal tuo pensiero forza sufficiente per compiere tutto il mio dovere”[7]), le lettere di Sandra non dicono nulla.
Sandra, come spesso accadeva a chi continuava all’interno del paese una vita tutto sommato normale, aveva della guerra un’idea molto approssimativa, filtrata attraverso gli scurissimi occhiali della retorica risorgimentale (di cui aveva fatto da poco a scuola una vera scorpacciata) e quelli ancora più scuri della disinformazione giornalistica e della propaganda ufficiale. Ottone non mancava, ogni tanto, di irritarsene, pur apprezzando, innamorato com’era, le buone intenzioni e i buoni sentimenti della fidanzata.[8] Sandrina, poi, era assai giovane – otto anni più giovane di Ottone – e ho l’impressione che non riuscisse ancora a percepire sul serio la morte: figuriamoci se poteva intuire, al di là delle belle immagini dell’“Illustrazione Italiana”, la sostanza nauseabonda e banale del carnaio in cui il suo Ottone diguazzava e di cui, pur tra mille reticenze, ogni tanto le parlava. Sandra – lo so per certo – finì col capire che cosa la guerra fosse stata, ma, credo, ci arrivò solo più tardi, a cose finite, quando cominciò a vivere con Ottone e imparò a conoscerne la sensibilità, la qualità delle impressioni, le censure, le tenerezze, le ripugnanze, i modi in cui nascevano in lui, si conservavano e si esprimevano i ricordi; quando, insomma, le riuscì di valutarne appieno la testimonianza.
La scelta di inserire in questa raccolta alcune lettere di Ivo era in gran parte obbligata, visto il ruolo di uomo dello schermo da lui svolto nel periodo della “rottura” tra Ottone e Sandra: le sue lettere a Sandra, come quelle di Ottone a Egle, garantiscono la continuità dell’epistolario. Ma c’è un’altra e più importante ragione per quell’inserimento ed è che i due fratelli, uniti al fronte così come lo erano stati nell’infanzia osimana e poi nel felice periodo romano della loro vita borghese, condividevano quasi tutto. Da bambini era stato Ivo, più grande, a insegnare a Ottone a sbrigarsi nei giochi e nel mondo. In guerra toccò a Ottone addestrare il fratello. Non che si confidassero qualsiasi cosa. Al contrario, accadeva che non si dicessero neppure le cose più elementari. Ma tra di loro, per lunga abitudine o per precoce saggezza, le parole non erano indispensabili.
Quando mi giunsero le tue carissime – scriveva Ottone a Sandra un mese dopo la decisione formale del loro fidanzamento – era presente Ivan, il quale ancora non sa nulla, ma sospetta molto, e lo vidi di sfuggita che sorrideva maliziosamente. [...] Ti meraviglierai forse che io non abbia trovato modo di essere più esplicito con lui, ma tutto un sistema di educazione grava sulle nostre relazioni. Devi sapere che l’affetto che esiste fra i membri della nostra famiglia è stato sempre vivo e grande, ma la severità fredda della nostra prima educazione à impedito l’espansività affettuosa e quindi quella reciproca confidenza. I segreti del cuore, in specie, sono sempre celati con una cura perfino esagerata ed è per questo che mi fu difficile aprirmi con lui e godo che cominci a sospettare, ed io lo aiuterò sempre più a credere.[9]
Questa assenza o scarsezza di parole nei rapporti con le persone care era non so bene se il cruccio o l’orgoglio di mio padre. Forse fu soprattutto rimpianto quando, in vecchiaia, andò rienumerando, non senza un po’ di rammarico per esser giunto al conto finale, le molte “gioie possedute, non conosciute” – e cioè non dette – della sua vita. E di rimpianto erano pieni quei pochi versi affettuosi (e forse brutti: ma qui che importa?) che dedicò a Ivo – “mio nume, nell’età prima” – e al suo prematuro, immeritato declino:
T’intravidi nelle nebbie di Gorizia,
T’ascoltai, impaurito, nelle vicende della Bainsizza
E mi lasciasti, non placato,
Nello squallore della metropoli senza pace.
Ottone ed Ivo non furono i soli in famiglia a dover sperimentare la guerra. Il maggiore dei fratelli, Arrigo, era ufficiale del genio. Urbano, che era di un paio di anni più giovane di Ottone e che durante la guerra di Libia aveva servito in marina, durante la Grande Guerra, come dipendente di una fabbrica milanese di trattori, usufruì dell’esonero fin quando, verso la fine del conflitto, vi rinunciò, riuscendo a partecipare all’occupazione di Pola. Mariano, nato nel 1895, anche lui artigliere, ma assegnato alla guida delle autoblindate, fu quello che pagò il prezzo più alto: ferito all’inizio del 1918, ne ebbe i polmoni compromessi e passò in ospedale i pochi anni che gli restarono; morì nel convalescenziario di Quasso al Monte, assistito ed amato da un’ammirevole infermiera. Il penultimo dei sette fratelli, Battistino, era in collegio a Milano quando venne arruolato, diciottenne, nel 158° fanteria. La sua esperienza di guerra fu breve ma intensa: dopo essersi guadagnato una medaglia di bronzo alla Meletta di Gallio il 24 novembre del 1917 con un’azione avventata e solitaria, nel dicembre, durante un attacco con i gas, cadde prigioniero degli Austriaci che pare lo abbiano tirato fuori, più morto che vivo, da sotto un mucchio di cadaveri. Chiuso in un campo di concentramento in Boemia riuscì a fuggire corrompendo, con un pacco di generi alimentari ricevuto da casa, un militare di guardia. Per il resto del conflitto se ne stette confortevolmente nascosto in casa di contadini; quando giunse l’armistizio rubò un cavallo e tornò a casa. Il solo dei giovani Costantini a scampare del tutto la guerra fu, per ragioni di età, Pierino, nato nel 1902, a oltre vent’anni di distanza dal primogenito.
Emma era l’unica femmina della famiglia. Trentenne e sposata, impiegata, dotata di un gran carattere, fu anche lei, con il marito e sei fratelli sotto le armi, provata duramente dal conflitto. Le sue lettere e quelle di Antonia, mia nonna, sono un piccolo documento di quel fronte domestico – non dico “interno” per non essere frainteso – che fu faticosamente e dolorosamente tenuto dalle donne.[10] Non so se ammirare di più la ribellione di mia zia o la rassegnazione di mia nonna. Mi limito a segnalare come i due atteggiamenti potessero convivere solidali nella stessa famiglia, nella stessa abitazione, nel corso delle stesse tribolazioni: forse perché espressioni diverse di una stessa, radicale estraneità alla guerra.
Di tutti i fratelli Costantini ho cercato, per questo periodo, qualche ricordo che integrasse il materiale conservato dai miei genitori. Ma non ho trovato quasi nulla: una lettera di Antonia a Ottone del 13 agosto del 1915 (che parlava già di pace: “bisognerà pure – c’è scritto – che una volta finisca questo pandemonio”), una di Ivo ad Antonia del marzo 1917 (che pubblico integralmente anche come esempio di sereno delirio casalingo – in uno dei posti e dei momenti più brutti del fronte isontino – di un antieroe quasi perfetto[11]), una cartolina postale di Ivo a Pierino, del settembre 1918 dall’Altipiano di Asiago, con un bel disegno della capanna che gli dava ricovero, un paio di lettere di un amico di famiglia a Ottone e a Ivo, entrambe del 25 maggio 1918, qualche foto. Mi dispiace in particolare di non aver rintracciato le centinaia di fotografie scattate e sviluppate da Ivo: appassionato fin da ragazzo di fotografia, si era portato al fronte tutto l’occorrente per lo sviluppo e a quell’arte incruenta si era applicato con un entusiasmo che di sicuro non provava per le azioni più propriamente belliche. Si racconta in famiglia che abbia regalato questo suo straordinario patrimonio a una signorina di cui era – in silenzio, secondo il suo stile – innamorato. Alcune sue fotografie sono certamente tra quelle che Ottone andava raccogliendo a illustrazione e a complemento del suo epistolario.
3. Umili strumenti di comunicazione amorosa, le lettere di Ottone erano anche, di proposito, corrispondenze di guerra, documenti da custodire (come di fatto è avvenuto) a beneficio dei posteri, testimonianze intenzionali di un evento di cui era impossibile non cogliere l’importanza eccezionale, anche se era un errore crederlo risolutivo, alba di chissà quale futuro – “unico nei tempi” scriveva Sandrina,[12] “che non si rinnoverà più nei secoli” ribadiva Ottone [13] – ed era temerario considerare un privilegio il semplice fatto di esserci.
Questa intenzione documentaria inizialmente poté anche servire a coprire le ambiguità di un rapporto che, non potendo ancora dirsi d’amore, travalicava abbondantemente i limiti delle normali relazioni tra una madrina di guerra e il suo figlioccio. Ma certamente non si trattava solo di un artificio: la generazione dei miei genitori aveva con la storia – la grande storia, quella dei popoli, delle nazioni, delle classi – una familiarità forse pericolosa, perché fonte di illusioni, ma genuina.
Sono belle le sue lettere – scriveva Sandra a Ottone dopo appena un mese di corrispondenza – molto ben chiare ed interessanti. Saranno per me come una storia di questa grande epoca storica, di questa guerra, che un giorno, raccontando ai biondi nepotini, potrò fare più ampia e piacevole con preziosi e importanti documenti...[14]
Non so perché Sandra immaginasse biondi i suoi nipotini. Ma so che l’idea di dover un giorno raccontare loro la storia dei suoi tempi e di quella grande guerra era una buona idea, di quelle che oggi si son perse nella vacuità di un “privato” – lo chiamano così, credo, proprio in odio alla storia – che pare fatto in serie. A Ottone, per i futuri nipotini, Sandra chiedeva fotografie, disegni, souvenirs d’ogni genere:
Terrò queste fotografie care e gelose ed anzi mi accorgo che la busta delle sue lettere ingranditasi di molto si è rotta, tanto da farmi pensare all’acquisto di una piccola scatola con serratura per riporre quella gradita corrispondenza, destinata in parte ad essere un giorno lettura piacevole ed immensamente educativa per i miei nepotini, che impareranno così a conoscere questo baldo artigliere.[15]
Gli accenni alla costruzione di questo “museo” sono frequenti nel carteggio tra i due: per Ottone fra i molti servigi che gli rendeva Sandrina quello della conservazione dei suoi ricordi di guerra non era tra i minori.
Come tanti altri combattenti della Grande Guerra, anche Ottone aveva avvertito all’inizio un bisogno quasi doloroso di comunicare le esperienze inaudite che si era trovato a vivere e aveva tentato di fissare in qualche modo le sensazioni che veniva provando. Non so se arrivando al fronte Ottone avesse con sé una macchina fotografica; ce ne erano però in batteria e già nell’agosto del 1915 si era fatto spedire da Ivo una lampada al magnesio.[16] Di foto, in ogni caso, fin dai primi mesi di guerra, ne mandò diverse, sia a Ivo sia a Sandra. Quanto alle lettere, quelle di Ottone erano belle davvero e le sue descrizioni dello “spettacolo” della guerra, che era il primo e il più ovvio dei temi da illustrare, erano singolarmente suggestive. “Spettacolo certo più auditivo che visivo” – precisava – “ma spettacolo meraviglioso sempre”.[17]
Padre Gemelli avrebbe osservato che il fante in trincea udiva molto e vedeva poco. Ottone, come artigliere di una batteria d’assedio, udiva e vedeva moltissimo. Ma i suoni – anche per lui – prevalevano. Sulle prime, e cioè nel tempo in cui il combattente “acquista quel senso nuovo d’orientamento per cui avverte suoni amici e nemici”,[18] la sua attenzione si concentrò sui rumori della guerra, dallo “strisciamento stanco” dei grossi proiettili di artiglieria “che fa pensare ad un treno in corsa lontano o ad una tela sottile che si laceri, interminabile” [19] allo sfrigolio delle pallottole che affondano nel fango,[20] dal “duplice e formidabile scoppio della tonalità della grancassa da banda” delle bombarde [21] al “precipitare” delle mitragliatrici (“Sentisse com’è lugubre la mitragliatrice – scriveva – sembra la motocicletta della morte”)[22] e al “frullare” degli aeroplani (“qualche cosa come il rumore di una trebbiatrice lontana nella calma campestre”).[23] Più tardi invece sarebbe stato soprattutto “il silenzio di guerra” ad attrarlo: “un silenzio incombente, pesante, rotto da fragori, lampi, rotolar di carriaggi, fruscìo di auto misteriosi...”[24]
Ma le parole (e ancora di più le immagini delle fotografie, che del resto acquistavano un significato solo quando venivano “raccontate” e cioè corredate di parole, come Ottone non mancava di fare) risultavano irrimediabilmente inadeguate alle cose, soprattutto quando dalla descrizione del paesaggio di guerra si passava alla descrizione dell’esperienza della guerra – dalle percezioni alle emozioni e ai sentimenti. Per un po’ Ottone volle credere che le difficoltà di comprensione nascessero dalle limitazioni della scrittura e che a voce sarebbe stato più facile farsi capire. Ma immagino che per lui, come per tanti altri, già la prima licenza sia stata occasione di una dura presa di coscienza: la guerra era un mondo a parte, isolato nel tempo e nello spazio.
S’io dovessi credere all’esistenza del passato – scriveva nel novembre del 1916 – direi d’aver vissuto due volte. Eppure è là un miraggio di pace e di gioia: al di là di quelle montagne, di quei solchi minacciosi irti di ferri; oltre quella minaccia.[25]
L’importante, allora, era salvare un legame con quell’“al di là” e con quanti – gli altri – lo popolavano (a cominciare da quel particolare altro che era il proprio io di prima). Un modo era quello, familiare ad Ottone fin dalla prima adolescenza, di voltare le spalle al presente o di esorcizzarlo rifugiandosi, specialmente di notte, nel sogno,[26] nella meditazione, nel ricordo, nella contemplazione e nell’ascolto della natura e forse – anche se non ne è rimasta traccia nelle carte di Ottone – nella produzione di poesie: non solo e non tanto a fini d’arte, quanto allo scopo, certo più urgente, di mantenere un controllo sulle proprie emozioni, di non impazzire.
È quasi inutile dire che Sandrina era una presenza stabile nelle fantasticherie notturne di Ottone. Non diversamente da altri, più dotti ed elaborati “colloqui muti” della letteratura di guerra, era in forma dialogica – le “chiacchieratine” con Sandra, di continuo richiamate nelle sue lettere – che Ottone strutturava i suoi preziosi soliloqui.[27] E forse si deve a questo lungo rimuginare notturno il fatto (quasi inaccettabile per chi, come me, non sa compilare neppure un biglietto di auguri senza riscriverlo più volte) che a Ottone riuscisse, perfino nelle meno favorevoli condizioni d’animo e d’ambiente, di stendere di getto le sue lettere, senza quasi cancellature, senza ripensamenti e con rarissimi “farfalloni” – come li chiamava.[28]
Nel corrispondere con i propri cari (e per Ottone nel corrispondere con Sandra) contava comunque di più, in guerra, leggere che scrivere. Ricevere posta era la prova materiale che quel legame vitale col mondo di prima esisteva sempre e sul combattente aveva un robusto effetto rassicurante, anche se di breve durata (in un epistolario a cadenza giornaliera, come quello di Ottone, se ne potrebbero misurare con una certa precisione i tempi di evanescenza seguendo l’insorgere e l’evolversi di stati d’ansia in relazione a disguidi o ritardi postali). Nello scrivere di sé e della guerra, invece, emergeva una serie di angosciose preoccupazioni, dal desiderio di tranquillizzare l’interlocutore al timore di essere fraintesi. C’era del resto qualcosa di osceno nel dar voce alle impressioni di guerra; di qui l’uso, forse anche scaramantico, degli eufemismi: “emozione” per paura, “interessante” per pericoloso, “solenne” per terribile e simili.[29] Meglio, tutto sommato, parlare d’altro o imporsi delle censure, chiudere nella propria memoria, almeno per il momento, terrori, orrori e quotidiane immondizie, prendere serenamente atto dell’irrilevanza (per gli altri) o dell’incomunicabilità di una gran parte – la più straordinaria – delle proprie esperienze:
...cose insignificanti del momento che fugge. E quanto spesso queste si tacciono perché non possono essere ben comprese! Quando si parla di grandioso, di solenne, di terrificante, sembra dire cose inverosimili...[30]
...cose che non posso e non voglio dire...[31]
...non posso e non voglio entrare in particolari...[32]
...di questo ti parlerò almeno due anni dopo il nostro matrimonio...[33]
Riscoprire, al di là del primitivo bisogno di comunicare, la civile opportunità di tacere, aggrapparsi al pudore e mettere, per così dire, tra parentesi la guerra: è quanto Ottone finì col fare – anche, suppongo, per sazietà.[34]
4. Si potrebbe pensare – e in guerra lo pensava lo stesso Ottone – che col passare del tempo, a distanza di anni o di decenni, le originarie censure dovessero cadere. Non è stato così. Certo, ai figli (e poi ai biondi nipotini previsti da Sandrina) Ottone ha raccontato episodi, anche crudi, che nell’epistolario non si ritrovano e ha parlato apertamente delle sue paure – ridendone, per lo più, come si addice a chi è felicemente scampato al pericolo. Ma quella confessione generale degli orrori della guerra, che nelle lettere sembrava promessa per il “dopo” non c’è mai stata.
Non c’è da stupirsene. Quando Ottone partì per il fronte lo fece per obbedire a un ordine a cui, pur volendo, non sarebbe stato facile sfuggire; ma lo fece anche per amore della patria e dell’umanità e lo fece soprattutto perché gli pareva moralmente indecente – inconcepibile – sottrarsi alla prova comune. Ottone era però convinto, come molti suoi compagni, che quella fosse l’ultima delle guerre e la grande illusione lo aiutò non poco a resistere per tutti i quarantadue lunghissimi mesi del conflitto. Si può capire, allora, che cosa abbiano significato per lui il fascismo e il ritorno della guerra: la scoperta che il “dopo” non c’era e che l’orrore dapprima concentrato nella fascia delle trincee stava dilagando ovunque. Come riproporre la novità sconvolgente della guerra moderna – e lo smarrimento del combattente di fronte ad essa – in un’epoca in cui perfino i ragazzi vi erano assuefatti? Come esprimere il valore universale di un sacrificio personale volonterosamente accettato quando ormai il sacrificio era diventato universale (perché universalmente imposto, senza più distinzioni tra maschi e femmine, adulti e bambini, militari e civili) e il suo significato morale sempre più dubbio? Più tardi, nei tempi della libertà e del benessere, quando la guerra era quasi dimenticata, Ottone deve essersi ritrovato in una situazione simile a quella di quand’era al fronte: i suoi interlocutori diretti, come un tempo Sandrina, gli volevano bene, ma non erano in grado di cogliere appieno il senso dei suoi racconti.
Così, nella maturità e poi da vecchio Ottone ritornò ai giorni della guerra (o, più esattamente, a un passato di cui la guerra occupava un lungo tratto) più per sé che per gli altri e riscoprendo alla fine i benefici di quel pudore che già lo aveva protetto in gioventù. Tentò, naturalmente, di trovare un pubblico per i suoi ricordi ma, forse nella consapevolezza della propria insufficienza di letterato, senza convinzione; quando si avventurò a pubblicare i suoi scritti, scelse le mezze misure: giornalini di provincia (la sua Osimo!), premi di poesia perfettamente sconosciuti, manifestazioni letterarie semiclandestine. Che non si sapesse in giro, insomma. Del resto, esprimersi per Ottone significava assai più dipingere che scrivere e alla scrittura si dedicò con qualche assiduità solo quando un incipiente tremore gli rese difficile il controllo delle mani.
Del passato che Ottone andava esplorando – in prosa, in versi o in pittura – la guerra occupa bizzarramente il tratto terminale: l’esperienza che aveva vissuto come un faticoso inizio, in vecchiaia gli appariva una sorta di conclusione. In polemica con il suo tempo (nel quale per altro non mancava di fare la sua parte) era solito vantarsi di essere uomo dell’Ottocento. Se per Ottocento intendiamo l’epoca delle “idealità”, come lui le chiamava, e cioè dei valori, delle virtù, delle regole – l’arte, la musica, la libertà, l’eguaglianza, il pudore – quella battuta, almeno nella coscienza che Ottone aveva di sé, non era priva di verità. Perché quell’epoca si era chiusa davvero con la guerra e Ottone aveva preso a detestare tutto quanto al cupio dissolvi della guerra poteva essere associato – nichilismi e avanguardismi di ogni sorta (il futurismo non meno del fascismo).
Il tema più frequentato da Ottone nei suoi tardi esercizi di memoria non fu in ogni modo la guerra, ma l’infanzia: un’infanzia – per l’appunto – tutta ancora Ottocento. Ad essa (e a Osimo, la città natale) è dedicato un delizioso libretto, Ricordi di un ragazzo del secolo passato, che, con lo pseudonimo Gian Bonaccia, Ottone ha prodotto in tre copie – quanti sono i suoi figli – usando una vecchia e guasta portatile Olivetti, ha illustrato a penna e rilegato da sé. Le illustrazioni che lo arricchiscono sono per lo più la riproduzione o l’abbozzo di quadri di argomento osimano, una serie iniziata molti anni prima con la ricostruzione della grande cucina della casa paterna (una delle sue opere più riuscite). Il mondo dell’infanzia ritorna in una raccolta di poesie, Album di famiglia, che è la più consistente (diciotto componimenti) tra quelle che nel 1970 Ottone volle riunire in volumetto. Il volumetto, tirato sempre in tre copie e sempre con la vecchia portatile Olivetti, ha per titolo Ombre del passato ed è firmato, come altre sue cose, Ottone da Osimo in onore e a imitazione del suo amico d’infanzia, lo xilografo Bruno da Osimo, ossia Bruno Marsili (che nella banda giovanile in cui Ottone portava il soprannome di “poeta” era detto “il solitario”: “Tu ‘solitario’ eri e pensoso /e tale ti nominammo poi. /A noi d’esempio fosti /e fra tutti a me il più caro”).
Album di famiglia è soprattutto un tentativo di ritrovare – come suona il titolo di una delle sue poesie – “colori e voci” di quegli anni lontani: la voce del vento, per esempio, che
... mi portava
Sull’onda del giovane autunno
Fruscii di foglie secche
o colori e luci d’interno (che s’era provato a riprodurre a olio e a pastello):
Rosato color di tiepido salotto
Grigio pungente d’imminente inverno.
C’è un episodio, la celebrazione del giorno dei morti a Osimo, il 2 novembre del 1900, che compare un po’ dovunque: nei Ricordi di un ragazzo del secolo passato, in una poesia, in un quadretto a olio, ma già anche nella corrispondenza con Sandra (nella lettera del 20 ottobre 1917). È una conferma che il ricordo – la ricerca dei colori e delle voci del passato – non ha aspettato la vecchiaia per giocare nell’esistenza di Ottone un ruolo chiave e che non è stato solo il trauma della guerra, ma anche e soprattutto la sua preesistente formazione intellettuale – il cumulo di percezioni e di risonanze affettive della sua prima giovinezza, una capacità ormai affinata di immagazzinarne di nuove – a dargli, come scriveva a Sandra il 14 luglio 1917 (quando non aveva che ventotto anni), “l’impressione d’aver vissuto tanto, di aver vissuto due volte”.[35] Anche l’ espressione “colori e voci” non è che una ripresa, certamente intenzionale, di un tema della giovinezza: “È infinita – scriveva in quella stessa lettera – la varietà delle bellezze in colori, ma io la voce cerco in ogni cosa: l’espressione, il sentimento”.
Un altro gruppo di poesie, Ricordi di Roma, raccoglie immagini e sensazioni legate alla città che Ottone ha amato sopra ogni altra. Il probabile riferimento cronologico di queste poesie è sempre più o meno lo stesso: gli anni a cavallo della guerra, ma con una certa prevalenza del prima. Un tramonto a Trinità de’ Monti:
Nebbia fitta d’incendio dorato.
Anime agitate scivolano la scalea
E fanno gaio brusio.
Fumiga il the odoroso.
Il the è quello di Babington, naturalmente. Pressappoco di fronte a Babington era il palazzo di cui la famiglia di Sandra, negli ultimi tempi della guerra, aveva occupato un attico (abitazione allora se non di poveri, almeno non di ricchi): Ottone vi fu ospitato nelle licenze del 1918.
I Ricordi di guerra sono in tutto sette, complessivamente meno di duecento versi. La poesia più lunga, che ha per oggetto la ritirata dalla Bainsizza al Piave, è la traduzione in versi di un resoconto in cinque cartelle che Ottone ha steso – credo –nello stesso periodo e di cui dò più avanti ampi estratti.[36] Come ho accennato, non è escluso, anche se non ne ho alcuna prova, che alcune di queste poesie risalgano, magari attraverso successivi rifacimenti, agli anni della guerra. Anche qui ci sono soprattutto “colori e voci”, impressioni legate a luoghi e momenti che non è difficile individuare con l’aiuto dell’epistolario: Caval di Novezza, Case bruciate di Tolmino, Savogna 1916, Cimitero di Castagnevizza... E anche per gli anni di guerra, come per quelli dell’infanzia, c’è stato un tentativo di evocazione pittorica: intorno al 1970 Ottone andava copiando, affascinato dal loro singolare linguaggio narrativo, decine di ex-voto di varie epoche e in quella forma finì per rappresentare anche – con un pizzico d’ironia – alcuni episodi che lo avevano avuto protagonista.
Il resto delle poesie di Ottone è dedicato a una valutazione conclusiva della propria esistenza. Insieme a considerazioni talvolta un po’ di maniera sulla caducità delle cose di questo mondo vi si trovano, al solito, felici reminiscenze e belle immagini. C’è anche – per non allontanarci troppo dal tema della guerra – un sobrio ricordo del suo apprendistato giovanile:
Spesso ricerco il passato lontano.
Fra realtà e sogno
Rivedo gli anni più veri
Dell’esistenza,
Quando l’istinto guidava i miei passi
E il mondo conquistavo a palmo a palmo.
Dolci meraviglie, paurosi dubbi
Accendevano il cuore all’impresa.
Mai avvilito dalla sconfitta
Mai imbaldanzito dalla vittoria.
Costruivo lentamente l’anima
Dentro un’armatura,
Come se questa
Non potesse franare mai.
Sull’effettiva solidità di quell’armatura Ottone esprimeva a posteriori umanissimi dubbi. Ma certo era anche grazie ad essa che gli era riuscito di attraversare la lunga esperienza della guerra – giorno dopo giorno con sofferta dedizione – uscendone spiritualmente vivo.
[1] Devo l’informazione all’amico Luigi Grasso, che ringrazio.
[2] Il foglio matricolare lo dice inviato in congedo sin dal 1° marzo del 1919. Ma occorsero altri quattro mesi abbondanti perché potesse lasciare il servizio.
[3] Ottone a Sandra, 25 aprile 1917 (n.70).
[4] Ottone a Sandra, 2 maggio 1917 (n.71).
[5] “Le altre cose (la guerra) son sempre le stesse” scriveva già nell’autunno del 1915 (Ottone a Sandra, 11 ottobre 1915 n. 30).
[6] Non dissimile il tono di un altro episodio raccontato il 6 settembre 1917 (Sandra era nel frattempo passata a lavorare nell’Amministrazione del Policlinico), ancora tutto inscrivibile - nonostante la già inquietante presenza di acidi pregiudizi nazionalistici - nel genere a lei congeniale delle scenette di vita impiegatizia: “La Russia è veramente vergognosa ed a lei sola dobbiamo ancora tanti sacrifici e dovremo chissà quanto altro tempo di lontananza!... Lo crederai? Io non posso più vedere né russi, né francesi, né inglesi, né serbi!... alcune volte se mi fissano dò loro delle occhiate così odiose e ricche di fierezza che di certo non potranno con me dire ciò che dicono per tante altre donne italiane!... Finché in Italia avremo questi uomini... avremo spie: è inutile! Confesso che io non ho fiducia nemmeno nei nostri alleati!... E’ inutile, l’italiano è unico per ardore di sentimenti ed in fatto di lealtà. Abbiamo noi un portinaio, al Policlinico, simpaticissimo: vero tipo di romano che non può digerire le cose storte e che se non può dire in viso ciò che si sente sembra debba morire... Si presentano l’altro giorno due signori russi di aspetto signorile, ma molto sgarbati, che vogliono venir visitati da uno specialista... Il nostro portiere dice loro parecchi nomi di primari, ma nessuno di questi pare possa soddisfarli. - Senta -, ripete il bravo romano, - noi abbiamo delle celebrità, ma queste trovansi tutte al fronte per rendersi molto più utili ai bravi soldati che lo meritano di più! - I russi cominciano allora a ridire sulla Capitale d’Italia, sui suoi servizi interni e via dicendo... Il buon uomo non ne può proprio più, è addirittura esasperato e risponde: - Sentano, se la Russia avesse mantenuto i suoi impegni e fatto il suo dovere, a quest’ora la guerra sarebbe finita e loro potrebbero aver qui i professori che cercano! -... - Cosa ha fatto la Russia per mancare ai suoi impegni ed ai suoi doveri? - chiedono i due stranieri... - Il voltafaccia! - risponde il nostro portinaio accompagnando la parola con un gesto molto espressivo della mano. Sai chi erano quei due russi? Due addetti all’Ambasciata di Russia e questi hanno minacciato un ricorso, ma la maggioranza del personale sanitario ed amministrativo del Policlinico siamo d’accordo col far succedere qualche scandalo se faranno del male al nostro simpatico romano! Io gli ho stretta la mano di cuore e confesso di essermi ancor più proposta fierezza e disprezzo per tutti coloro che non sapranno rispettare la mia Patria.”
[7] Ottone a Sandra, 17 settembre 1917 (n. 126).
[8] Vicina, come Ottone, alle posizioni dell’interventismo democratico (nella lettera del 2 novembre 1915 racconta a Ottone una vivace discussione con un amico nazionalista), Sandra aveva espresso fin dall’inizio il suo patriottismo in toni esclamativi e paradossali ma - come si è visto - non senza umorismo. Un fiume di retorica doveva invece erompere dalle lettere di Sandra con la rotta di Caporetto, travolgendo il suo pur solido buon senso. In quei giorni Sandra scrisse a Ottone quotidianamente, ma soffocando quasi nell’enfasi l’affetto (“Dall’altra sera - scriveva ad esempio il 28 ottobre del 1917 - alla prima notizia della intrapresa offensiva austro-germanica io ho abbandonato le chimere preziose e care del nostro amore santo per rinunce continue e solo uno scopo grande ha avuto il mio cuore... La Patria!...”). Anche nella valutazione delle responsabilità del disastro, a dispetto delle appassionate proteste di Ottone, Sandra preferiva attenersi alle verità ufficiali: “Però - scriveva il 29 novembre, in risposta alla lettera di Ottone del 25 - quello che da fonte sicura si è saputo, si è che il tradimento è partito dall’alto, vero, ma è stato seguito anche dal piccolo, che è anche più numeroso!... I capi non sono in egual numero dei dipendenti ed in certi casi sono i più che prevalgono e possono, volendo, avere il sopravvento... Comunque quello che è stato è stato!” A partire da questo momento l’insofferenza di Ottone per l’insistente retorica di Sandra e per il suo palese rifiuto di capire come stessero le cose venne facendosi sempre più evidente - per esempio nelle lettere del 16 e 23 dicembre 1917 (n. 150 e 151) e del 23 e 29 gennaio 1918 (nn. 154 e 155) - contenuta soltanto dalla speranza di potersi esprimere più efficacemente a voce. Nel febbraio Ottone andò a Roma in licenza., ma se pure con Sandra parlò di guerra e di politica, le sue parole non furono sufficienti a persuadere la fidanzata e il dissenso tornò a riemergere più volte: vedi per tutte la lettera del 5-6 giugno 1918 (n. 185).
[9] Ottone a Sandra, 12 maggio 1917 (n. 78).
[10] Riporto una lettera di Emma a Sandra in nota a quella di Ottone del 15 settembre 1918 (n. 203).
[11] Ivo a Antonia, 7 marzo 1917 (n. 64).
[12] Sandra a Ottone, 27 agosto 1915.
[13] Ottone a Sandra, 16 giugno 1917 (n. 89).
[14] Sandra a Ottone, 23-25 agosto 1915.
[15] Sandra a Ottone, 2 novembre 1915.
[16] Accenni all’invio da parte di Ivo di una lampada al magnesio sono in una lettera di Antonia a Ottone del 13 agosto 1915 e in una di Sandra del 31 dello stesso mese. L’11 novembre (n. 39) Ottone lamentava però di non avere con sé una macchina fotografica.
[17] Ottone a Sandra, 14 agosto 1915 (n. 16). Cenni a queste sue descrizioni in A. Gibelli, Grande Guerra e società di massa, in Due secoli. Ottocento e Novecento, Genova-Milano, Io e gli Altri, 1982, p. 83; M. Quaini, “Brutti posti” contro “valli ridenti”: la percezione del paesaggio nei soldati e negli ufficiali della Grande Guerra, in “Movimento operaio e socialista”, a. V (n.s.), n. 3, settembre-dicembre 1982; A. Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.
[18] C. Alvaro, Vent’anni, Treves, Milano, 1931, p.196.
[19] Ottone a Sandra, 8 agosto 1915 (n.14).
[20] Ottone a Sandra, 6 settembre 1915 (n. 23).
[21] Ottone a Sandra, 13 novembre 1915 (n. 40).
[22] Ottone a Sandra, 1° settembre 1915 (n. 21). L’associazione mitragliatrice-motocicletta diventò un luogo comune: la si ritrova per esempio nell’opera di Alvaro che ho appena ricordato (p.231). Alfredo Panzini faceva della mitragliatrice una sorta di simbolo della sfida tecnologica lanciata dalla Germania alla civiltà latina: “Le mitragliatrici, ecco! La terribile arma: è la Germania. Sembrano motociclette.” (A.Panzini, Diario sentimentale della guerra, Mondadori, Milano, 1923, p. 349).
[23] Ottone a Sandra, 5 maggio 1917 (n. 74).
[24] Ottone a Egle, 23 novembre 1916-13 febbraio 1917 (n. 59)
[26] “Ed io sogno tanto, ad occhi aperti e ad occhi socchiusi in ispecie e nell’oscurità, prima di addormentarmi” (21 settembre 1917, n. 127). “Anche l’altra notte ò sognato qualche cosa di simile; non ricordo però se avessi gli occhi chiusi: mi capita spessissimo sognare ad occhi ben aperti. Avviene allora che il sogno è più logico, continuato e senza lacune: meraviglioso sempre” (13 aprile 1918, n. 178). Nei brani delle lettere di Ottone qui pubblicati il termine sogno ricorre 36 volte; fantasticheria 11 volte. Qualche frase qua e là sembra alludere a tentativi di produzione poetica, come questa ad esempio (in una delle sue lettere notturne e a proposito di un usignolo): “Poco fa, ascoltando quel canto d’una mestizia soave mi provavo a modulare qualche verso” (3 maggio 1917, n. 72).
[27] “Colloqui mentali”, “colloqui muti”, “chiacchieratine” sono le espressioni ricorrenti. Tra le lettere qui pubblicate cfr. quelle del 29-30 settembre 1915 (n. 29), del 14-15 ottobre 1915 (n. 31), del 3 giugno 1917 (n. 86), del 17 settembre 1917 (n. 126), del 11 ottobre 1917 (n.133), del 23 dicembre 1917 (n. 152), del 23 marzo 1918 (n. 168), del 16 agosto 1918 (n. 196), del 10-11 settembre 1918 (n. 201).
[28] Ottone a Sandra, 11 ottobre 1917 (n. 133).
[29] Limitatamente alle lettere di Ottone qui pubblicate in ben 16 casi su 24 il termine emozione è usato come sinonimo di paura o comunque in relazione a un grave pericolo. Paura ricorre invece cinque volte, ma quattro volte in formule negative (“paura niente, ma certo, un po’ d’emozione”: Ottone a Sandra, 16-17 novembre 1915, n. 43) e nell’altro caso si tratta della paura degli altri. Orrore compare due volte, ma solo una volta in rapporto a vicende belliche. La parola terrore compare una sola volta ma senza alcun riferimento alla guerra.
[30] Ottone a Sandra, 4 e 5 settembre 1917, n. 119.
[31] Ottone a Sandra, 11 giugno 1917, n. 88.
[32] Ottone a Sandra, 11 novembre 1917, n. 145.
[33] Ottone a Sandra. 22 maggio 1918, n. 184.
[34] Meno reticente Ottone si dimostrava nella descrizione delle fatiche del fronte, forse perché, pur costituendo una parte cospicua dell’orrore della guerra, gli apparivano meno lontane dall’esperienza della gente comune e perciò più facilmente comunicabili: così, la stanchezza, il sonno, lo sfinimento sono diventati nelle sue lettere temi ricorrenti. Tra i pregi della testimonianza di Ottone credo debbano annoverarsi alcune belle descrizioni di traini (cfr. specialmente i nn. 14, 23, 31) e di “passeggiate” in montagna (ad esempio il n. 181) e i non pochi squarci sul mondo della fureria, sui risvolti amministrativi della guerra, a cui erano principalmente legati l’incubo del superlavoro, la perpetua lotta contro il tempo, la disperata ricerca di momenti di pausa e di solitudine (nn. 132, 133, 149, 182). Sugli aspetti tecnici del traino in montagna: Ministero della Guerra. Ispettorato d’Artiglieria da Costa e da Fortezza, Traini e trasporti delle batterie di medio calibro. Appendice all’Istruzione sulle Manovre di forza per le artiglierie d’assedio, Voghera Enrico tipografo editore del Giornale Militare, Roma 1910 (e successive variazioni).
[35] Ottone a Sandra, 14 luglio 1917 (n.102), ma cfr Ottone a Egle, 23 novembre 1916-13 febbraio 1917 (n.59).
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Ottone Costantini
Lettere dal fronte
Indice
Francesco Cataluccio
Prefazione
Claudio Costantini
Un contabile alla guerra
Note e avvertenze
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Il primo fronte
1-15 16-29 30-46
Da Asiago alla Bainsizza
47-70 71-94 95-119 120-141
L'ultimo anno
142-163 164-184
185-204 205-222
*
Album di guerra
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